Cenni Storici
Un pò di Storia
La storia della fotografia descrive le vicende che portarono alla realizzazione di uno strumento capace di registrare il mondo circostante grazie all'effetto della luce. Utilizzando le scoperte e
gli studi iniziati già nell'antica Grecia, la fotografia si concretizzò agli inizi dell''800 e si sviluppò arrivando alla riproduzione del colore e all'utilizzo di supporti digitali,
imponendosi inoltre come mezzo artistico capace di supportare e affiancare le altre arti visuali.
La fotografia si è affermata nel tempo dapprima come procedimento di raffigurazione del paesaggio e dell'architettura, poi come strumento per ritrarre la nascente borghesia e il popolo. La
diffusione sempre maggiore del mezzo fotografico portò ad uno sviluppo della sensibilità estetica e all'indagine artistica del nuovo strumento, consentendone l'accesso nelle mostre e nei musei.
Ebbe inoltre un ruolo fondamentale nello sviluppo del giornalismo e nel reportage e il miglioramento della tecnologia ne contribuì l'estensione anche nella cattura di immagini dello spazio e del
micromondo.
La Camera Oscura:
un brevetto della Natura
La prima tappa fondamentale nella storia affascinanate della Fotografia è stata l'invenzione della Camera Oscura, parte essenziale della macchina
fotografica. In realtà però l'uomo non ha inventato nulla, è stato solo abile nell'imitare un "brevetto" della natura. L'occhio umano, infatti, è costruito sullo stesso principio della camera
oscura: la lente dell'obbiettivo corrisponde al cristallino e il foro di entrata della luce alla pupilla, al di là della quale si trova la camera oscura dell'occhio, sul cui fondo vi è la rètina,
dove si proiettano, rovesciate, le immagini del mondo esterno. Noi vediamo le immagini dritte perché il nostro cervello con un procedimento incredibilmente affascinante e complicato le
raddrizza.
Indistintamente tutti gli apparecchi fotografici, anche i piu' moderni, sono formati da una piccola camera oscura, che sfrutta quello che è uno dei piu'
elementari fenomeni dell'ottica.
L'effetto "camera oscura" si nota a volte, durante le ore piu' luminose dell'estate, al chiuso di stanze nelle quali la luce filtra attraverso le
persiane e proietta, capovolte sul muro o sul soffitto, le immagini della strada. Questo è il principio fondamentale della camera oscura.
Sembra che il primo ad averla concepita sia stato Aristotele, addirittura nel IV secolo a.C. allo scopo di osservare un'eclissi di sole. Nel 1039
l'erudito arabo Alhazan Ibn Al-Haitham la usò anche lui per osservare un'eclisse.
Nel 1515 Leonardo da Vinci, studiando la riflessione della luce sulle superfici sferiche descrisse una camera oscura che chiamò Oculus Artificialis
(occhio artificiale). Un apparecchio del genere, anche stavolta usato per studiare l'eclissi solare del 24 gennaio 1544, fu illustrato pure dallo scìenziato olandese Rainer Geinma Frisius.
Nel 1550 il filosofo e fisico pavese Girolamo Cardano ottenne un'immagine più nitida applicando al forellino anteriore della "camera oscura" una lente convessa, antenata dell'obiettivo
fotografico. Tre anni dopo, il fisico napoletano Giambattista Della Porta descrisse, nel suo Libro Magía naturalis, un apparecchio con lente e con specchio riflettore per il raddrizzamento
dell'immagine sul piano orizzontale superiore, costituito da un vetro smerigliato. E' il principio dei moderni, apparecchi reflex. (Giambattista Della Porta previde anche l'uso e l'evoluzione
della "lanterna magica", antenata del proiettore cinematografico). Non bisogna poi dimenticare il veneziano Daniele Barbaro, ìl quale nel libro "La pratica della prospettiva", pubblicato nel
1568, descrive una "comera oscura" munita di lente biconvessa, utile per il disegno prospettico.
Come si vede, gli studiosi italiani del Rinascimento contribuirono in modo notevole a porre i fondamento ottici della moderna fotografia. Nel Seicento divenne frequente l'uso della camera obscura
portabilis: una scatola con una lente da una parte (per l'entrata della luce) ed uno schermo di vetro smerigliato dall'altra, cosicchè l'immagine poteva essere vista dall'esterno della camera.
Nel 1620 Giovanni Keplero usava una specie di tenda da campo come 'camera obscura'. Una lente ed uno specchio sulla sommità della tenda rinviavano l'immagine su un piano all'interno. Keplero
poteva così effettuare i suoi rilievi topografici.
Gli artisti del seicento facevano uso della camera obscura (come veniva allora chiamata) non soltanto per i ritratti ma anche per disegnare paesaggi.
Una camera oscura gigante fu costruita per tale uso nel 1646 ad Amsterdam dall'olandese Athanasius Kircher. Le dimesioni erano tali che il disegnatore (ed eventualmente un suo aiutante) poteva
entrare all'interno della camera oscura. Su una parete un piccolo buco consentiva alla luce di passare andando a riprodurre il paesaggio esterno sulla parete opposta. Il disegnatore in piedi
tracciava su un grande foglio steso sulla parete i tratti del paesaggio. Il disegno veniva poi completato nello studio dell'artista. Kircker intuì anche che il fenomeno poteva avvenire anche al
contrario in proiezione ed ideò la cosiddetta 'lanterna magica' un proiettore di disegni che fu l'antenato dei proiettori cinematografici moderni.
Finalmente, nel 1685, il tedesco Johann Zahn realizzava una "camera oscura" a reflex che perfezionava quella descritta da Della Porta. Aveva nell'interno uno specchio, collocato a 45 gradi rispetto alla lente dell'apertura, che rifletteva l'immagine su un vetro opaco. Ponendo un foglio da disegno sul vetro, era possibile disegnare l'immagine così proiettata, ricalcandone i contorni visibili in trasparenza. Zahn costruì in seguito una macchina più piccola e di uso meno complicato, trasportabile ovunque. Uno strumento di grande ausilio per disegnatori tecnici e pittori che continuò ad essere usato per almeno due secoli. Esso si basava sullo stesso identico principio grazie al quale funzionano oggi le moderne fotocamere reflex. In queste ultime lo specchio è stato sostituito da un pentaprispa di cristallo.
Già il filosofo Aristotele osservò che la luce, passando attraverso un piccolo foro, proiettava un'immagine circolare. Lo studioso arabo Alhazen Ibn Al-Haitham giunse (prima del 1039) alle
stesse conclusioni, definendo la scatola nella quale le immagini si riproducevano con il termine camera obscura. Nel 1515 Leonardo da Vinci utilizzò la camera oscura per dimostrare che le
immagini hanno natura puntiforme, si propagano in modo rettilineo e vengono invertite nell'ingresso della camera oscura dal foro stenopeico camera oscura leonardiana.
A Gerolamo Cardano fu da attribuirsi, nel 1550, l'utilizzo di una lente convessa per aumentare la luminosità dell'immagine, mentre il veneziano Daniele Barbaro, nel 1568, utilizzò una sorta
di diaframma di diametro inferiore a quello della lente per ridurre le aberrazioni.
Materiale sensibile
Catturare la luce richiese però la comprensione dei materiali fotosensibili, che, anche se conosciuti fin dal Medioevo, non furono studiati a fondo fino al 1727, quando lo scienziato tedesco
Johann Heinrich Schulze, durante alcuni esperimenti con carbonato di calcio, acqua regia, acido nitrico e argento, scoprì che il composto risultante, fondamentalmente cloruro d'argento, reagiva
alla luce. Si accorse che la sostanza non si modificava se esposta alla luce del fuoco (ortocromatismo, contrapposto a pancromatismo ), ma diveniva rosso scura se colpita dalla luce del sole,
esattamente come per la maggior parte delle pellicole e carte in bianco e nero diffuse fino alla prima metà del 1900 e basate sugli alogenuri argentici non modificati. Ripeté l'esperimento
riempiendo una bottiglia di vetro che, dopo l'esposizione alla luce, si scurì solo nel lato illuminato. Chiamò la sostanza scotophorus, portatrice di tenebre. Una volta pubblicati, gli studi di
Schulze provocarono fermento nell'ambiente della ricerca scientifica.
Verso la fine del 1700 l'inglese Thomas Wedgwood, figlio di un famoso ceramista di quel tempo, sperimentò l'utilizzo del nitrato d'argento, prima rivestendone l'interno di recipienti ceramici,
poi immergendovi dei fogli di carta esposti poi alla luce dopo avervi deposto degli oggetti. Si accorse che dove la luce colpiva il foglio, la sostanza si anneriva, mentre rimaneva chiara nelle
zone coperte dagli oggetti. Queste immagini, però, non si stabilizzavano e perdevano rapidamente contrasto se mantenute alla luce naturale, mentre riposti all'oscuro potevano essere viste alla
luce di una lampada (a olio) o di una candela. Utilizzò anche il cuoio come materiale e sistemò dei fogli sensibilizzati all'interno di una camera oscura senza però ottenere risultato alcuno. A
causa della salute cagionevole non poté proseguire negli studi che nel 1802 l'amico Sir Humphry Davy descrisse sul "Journal of the Royal Institution of Great Britain", annotando però che non era
stato compreso il meccanismo per interrompere il processo di sensibilizzazione.[1] La corrispondenza con James Watt, fa ritenere che nel 1790 - 1791 avvenne la prima impressione di un'immagine
chimica su carta.
Nota:doveva tenersi il 7 aprile 2008 da Sotheby's ma l'asta è stata rinviata. Si tratta di un foglio di carta attribuito a Thomas Wedgwood con impressa una foglia d'albero.
Finora si pensava che fosse un "disegno fotogenico" di Talbot ma una piccola W impressa in un angolo ha fatto ricredere lo storico della fotografia Larry Schaaf. Occorrerà anticipare la
realizzazione della prima fotografia stabile a distanza di tempo di un ventennio.
Joseph Nicephore Niepce si interessò della recente scoperta della litografia e approfondì gli studi alla ricerca di una sostanza che potesse impressionarsi alla luce in maniera esatta mantenendo
il risultato nel tempo. Il 5 maggio 1816, Joseph Niepce scrisse al fratello Claude del suo ultimo esperimento, un foglio bagnato di cloruro d'argento ed esposto all'interno di una piccola camera
oscura. L'immagine risultante apparì invertita, con gli oggetti bianchi su fondo nero. Questo negativo non soddisfò Niepce, che proseguì la ricerca di un procedimento per ottenere direttamente il
positivo. Scoprì che il bitume di Giudea era sensibile alla luce e lo utilizzò nel 1822 per produrre delle copie di una incisione del cardinale di Reims, Georges I d'Amboise. Il bitume di Giudea
è un tipo di asfalto normalmente solubile all'olio di lavanda, che una volta esposto alla luce indurisce. Niepce cosparse una lastra di peltro con questa sostanza e vi sovrappose l'incisione del
cardinale. Dove la luce riuscì a raggiungere la lastra di peltro attraverso le zone chiare dell'incisione, sensibilizzò il bitume, che indurendosi non poté essere eliminato dal successivo
lavaggio con olio di lavanda. La superficie rimasta scoperta venne scavata con dell'acquaforte e la lastra finale poté essere utilizzata per la stampa.
Niepce chiamò questo procedimento eliografia e lo utilizzò anche in camera oscura per produrre dei positivi su lastre di stagno. Dopo l'esposizione alla luce e il successivo lavaggio per
eliminare il bitume non sensibilizzato, utilizzò i vapori di iodio per annerire le zone lavate dal bitume. A causa della lunghissima esposizione necessaria, fino a otto ore, le riprese
all'esterno furono penalizzate dalla luce solare che, cambiando orientamento, rese l'immagine irreale. Maggior successo ebbero le eliografie con luce controllata, ovvero in interni, e su lastre
di vetro.
Nel 1827, durante il viaggio verso Londra per trovare il fratello Claude, Niepce si fermò a Parigi e incontrò Louis Jacques Mandé Daguerre: quest'ultimo era già stato informato del lavoro di
Niepce dall'ottico Charles Chevalier, fornitore per entrambi di lenti per la camera oscura. Daguerre era un pittore parigino di discreto successo, conosciuto principalmente per aver realizzato il
diorama, un teatro che presentava grandi quadri e giochi di luce, per cui Daguerre utilizzava la camera oscura per assicurarsi una prospettiva corretta.
A Londra Niepce presentò l'eliografia alla Royal Society, che non accettò la comunicazione perché Niepce non volle rivelare tutto il procedimento. Tornò a Parigi e si mise in contatto con
Daguerre, con il quale concluse nel dicembre 1829 un contratto valido dieci anni per continuare le ricerche in comune. Dopo quattro anni, nel 1833, Niepce morì senza aver potuto pubblicare il suo
procedimento. Il figlio Isidore prese il posto nell'associazione con Daguerre, ma non fornì alcun contributo, tanto che Daguerre modificò il contratto e impose il nome dell'invenzione in
dagherrotipia, anche se mantenne il contributo di Joseph Niepce. Isidore firmò la modifica pur ritenendola ingiusta. Il nuovo procedimento era molto diverso rispetto a quello originario preparato
da Joseph Niepce, quindi si può ritenere in parte corretta la rivendicazione di Daguerre.
Nel 1837 la tecnica raggiunta da Daguerre fu sufficientemente matura da produrre una natura morta di grande pregio. Daguerre utilizzò una lastra di rame con applicata una sottile foglia di
argento lucidato, che posta sopra a vapori di iodio reagiva formando ioduro d'argento. Seguì l'esposizione alla camera oscura dove la luce rendeva lo ioduro d'argento nuovamente argento in un
modo proporzionale alla luce ricevuta. L'immagine non risultava visibile fino all'esposizione ai vapori di mercurio. Un bagno in una forte soluzione di sale comune fissava, seppure non
stabilmente, l'immagine.
In cerca di fondi, Daguerre fu contattato da François Arago, che propose l'acquisto del procedimento da parte dello Stato. Il 6 gennaio 1839 la scoperta di una tecnica per dipingere con la luce
fu resa nota con toni entusiastici sul quotidiano Gazette de France e il 19 gennaio nel Literary Gazette.
Il procedimento venne reso pubblico il 19 agosto 1839, quando, in una riunione dell'Accademia delle Scienze e dell'Accademia delle Belle arti, venne presentato nei particolari tecnici
all'assemblea e alla folla radunatesi all'esterno. Arago descrisse la storia e la tecnica legata al dagherrotipo, inoltre presentò una relazione del pittore Paul Delaroche, in cui furono esaltati
i minuziosi dettagli dell'immagine e dove si affermò che gli artisti e gli incisori non erano minacciati dalla fotografia, anzi potevano utilizzare il nuovo mezzo per lo studio e l'analisi delle
vedute. La relazione terminò con il seguente appunto di Delaroche:
Daguerre pubblicò un manuale (Historique et description des procédés du dagguerréotype et du diorama) tradotto ed esportato in tutto il mondo, contenente la descrizione dell'eliografia di Niepce
e i dettagli della dagherrotipia. Con il cognato Alphonse Giroux, Daguerre si accordò per la fabbricazione delle camere oscure necessarie. Costruite in legno, furono provviste delle lenti
acromatiche progettate da Chevalier nel 1829. Questi obiettivi avevano una lunghezza focale di 40,6 cm e una luminosità di f/16, il costo si aggirava intorno ai 400 franchi. Anche se il
procedimento fu reso pubblico in Francia, Daguerre acquisì un brevetto in Inghilterra, con il quale impose delle licenze per l'utilizzo della sua scoperta.
In Italia i primi esperimenti di fotografia sono condotti da Enrico Federico Jest e da Antonio Rasetti nell' ottobre del 1839 con un macchinario di loro costruzione basato sui progetti di
Daguerre. Le prime fotografie italiane sono vedute del tempio della gran madre, di piazza castello, e di palazzo reale, tutte a Torino.
I procedimenti alternativi
La notizia apparsa sul Gazette de France e sul Literary Gazette destò l'interesse di alcuni ricercatori che stavano lavorando nella stessa direzione. Tra questi William Fox Talbot, che si
affrettò a rendere pubbliche la sue scoperte, documentando esperimenti risalenti al 1835. Si trattava di un foglio di carta immerso in sale da cucina e nitrato d'argento, asciugato e coperto con
piccoli oggetti come foglie, piume o pizzo, quindi esposto alla luce. Sul foglio di carta compariva il negativo dell'oggetto che il 28 febbraio 1835 Talbot intuì come trasformare in positivo
utilizzando un secondo foglio in trasparenza. Utilizzò una forte soluzione di sale o di ioduro di potassio che rendeva meno sensibili gli elementi d'argento per rallentare il processo di
dissoluzione dell'immagine. Chiamò questo procedimento sciadografia, che utilizzò già nell'agosto del 1835 per produrre delle piccole immagini di 6,50 cm² della sua tenuta di Lacock Abbey
mediante camera oscura.
Il 25 gennaio 1839 Talbot presentò le sue opere alla Royal Society, seguite da una lettera ad Arago, Biot e Humboldt per rivendicare la priorità su Daguerre. Il 20 febbraio fu letta una relazione
che rese chiari alcuni aspetti tecnici, al punto da rendere replicabile la procedura.
Insieme a Talbot, anche Sir John Herschel, all'oscuro delle sperimentazioni dei colleghi, utilizzò i sali d'argento ma, grazie alle precedenti esperienze con l'iposolfito di sodio che si accorse
sciogliere l'argento, ottenne un fissaggio migliore proprio utilizzando questa sostanza. Ne parlò a Talbot e insieme pubblicarono la scoperta che venne subito adottata anche da Daguerre. La
sostanza cambiò in seguito nome in tiosolfato di sodio, anche se rimase conosciuta come iposolfito. Ad Herschel venne attribuita anche l'introduzione dei termini fotografia, negativo e
positivo.
Hippolyte Bayard presentò il suo procedimento solo nel luglio del 1839, senza ottenere il successo dei due metodi già esposti.
Tra i procedimenti e varianti minori ricordiamo inoltre quello dello scozzese Mungo Ponton, che utilizzò il più economico bicromato di potassio come sostanza fotosensibile, e quelli di Hercules
Florence e Hans Thøger Winther che rivendicavano rispettivamente negli anni 1833 e 1826 degli esperimenti fotografici con esito positivo.
Foto:Vista panoramica di Costantinopoli, stampa all'albumina, 1876.
Le prime fotografie destarono subito l'interesse e la meraviglia dei curiosi che affollarono le sempre più frequenti dimostrazioni del procedimento. Rimasero sbalorditi dalla fedeltà
dell'immagine e di come si potesse distinguere ogni minimo particolare, altri paventarono un abbandono della pittura o una drastica riduzione della sua pratica. Questo non avvenne, ma la nascita
della fotografia favorì e influenzò la nascita di importanti movimenti pittorici, tra cui l'impressionismo, il cubismo e il dadaismo.
La fotografia si affiancò e in alcuni casi sostituì gli strumenti di molti specialisti. La possibilità di catturare un paesaggio in pochi minuti e con una elevata quantità di particolari fece
della fotografia l'ideale strumento per i ricercatori e i viaggiatori. Particolarmente attivo fu l'editore Lerebours che ricevette grandi quantità di dagherrotipi dalla Grecia, da Medio Oriente,
Europa e America che furono trasformati in acquatinte per la pubblicazione nella serie Excursion daguerriennes.
Nonostante questi successi incoraggianti, la fotografia incontrò inizialmente dei problemi nel ritrarre figure umane a causa delle lunghe esposizioni necessarie. Anche se illuminato da specchi
che concentravano la luce del sole, immobilizzato con supporti di legno per impedire i movimenti, il soggetto doveva comunque sopportare una esposizione di almeno otto minuti per ricevere una
fotografia in cui appariva con occhi chiusi e un atteggiamento innaturale.
Solo nel 1840 l'introduzione da parte di Joseph Petzval per conto della Voigtländer di un obiettivo di luminosità f/3.6 e dell'aumentata sensibilità della lastra dagherrotipa mediante l'utilizzo
di vapori di bromo (John Frederick Goddard) e cloro (Francois Antoine Claudet) permisero esposizioni di soli trenta secondi. La fragilità della lamina argentata fu rafforzata dall'utilizzo di
cloruro d'oro per opera di Hippolyte Fizeau, che incrementò anche il contrasto generale.
Il 1841 fu l'anno dell'evoluzione della sciadografia in calotipia ad opera di Talbot, che intuì la possibilità di terminare la trasformazione dei sali d'argento non solo mediante l'azione della
luce, ma con l'utilizzo di un nuovo passaggio chiamato sviluppo fotografico. Mentre nella sciadografia l'esposizione continuava fino alla comparsa dell'immagine, nella calotipia l'esposizione
venne ridotta a pochi secondi, ed era compito dello sviluppo far apparire l'immagine negativa finale. La carta veniva immersa in una soluzione di nitrato d'argento e acido gallico, esposta e
immersa nella stessa soluzione che agisce da rilevatore permettendo la comparsa dell'immagine finale. La stampa necessaria per ottenere il positivo utilizzava il solito cloruro d'argento. Per
questo nuovo procedimento Talbot richiese e ottenne un brevetto in Inghilterra, per monetizzare la sua scoperta e seguire l'esempio di Daguerre. Tra il 1844 e il 1846 Talbot produsse in migliaia
di copie quello che può essere definito il primo libro fotografico, il Pencil of Nature, contenente 24 calotipi.
Grazie a questi progressi tecnologici, nuovi laboratori aprirono in tutto il mondo. In America, che ottenne il primato della quantità di dagherrotipi prodotti, la fotografia fu importata da
Samuel Morse e dal francese François Gourard. Ottenne un grande successo e nel 1850 si contavano più di 80 laboratori nella sola New York, vennero catturati paesaggi del Canada e della frontiera
occidentale. Le lastre argentate furono qui prodotte utilizzando macchine a vapore e con il trattamento elettrolitico, che aumentava la quantità di argento sulla lastra. Questo procedimento fu
poi importato in Francia e chiamato il metodo americano.
La moda dei ritratti si sviluppò rapidamente e ne usufruirono tutti i ceti sociali, grazie all'economicità del procedimento. Il dagherrotipo era di solito più apprezzato, perché produceva una
sola copia, rendendola quindi più preziosa, e perché di qualità superiore al calotipo, che subiva i difetti dell'utilizzo della carta come supporto per la stampa. I soggetti erano ripresi
solitamente in studio, su di uno sfondo bianco, anche se numerosi furono i fotografi itineranti, che si muovevano con le fiere e nei piccoli villaggi. A causa della mortalità ancora elevata,
specialmente quella infantile, vennero prodotte anche immagini che ritraevano neonati o bambini deceduti, immortalati su piccole fotografie racchiuse all'interno di ciondoli come ultimo
ricordo.
Lo studio di nuovi metodi e la ricerca di materiali per migliorare il processo fotografico non si arrestò. Nel 1851 Frederick Scott Archer introdusse un nuovo procedimento a base di collodio che
affiancò e infine sostituì tutte le altre tecniche fotografiche. L'utilizzo del collodio e di lastre in vetro o metallo resero dei negativi di qualità eccezionale, stampati sulle recenti carte
albuminate o al carbone. Le lastre al collodio necessitavano di essere esposte ancora umide e sviluppate subito dopo; questa caratteristica, se da un lato permise la consegna immediata del lavoro
al cliente, richiese il trasporto del materiale e dei chimici per la preparazione delle lastre nelle attività all'esterno. Il procedimento fu denominato a lastra umida o collodio umido.
Dall'intuizione che da un negativo al collodio sottoesposto era possibile ottenere un immediato positivo grazie all'applicazione di una superficie scura sul retro nacquero due tecniche
fotografiche, l'ambrotipia brevettata nel 1854 che utilizzò una lastra di vetro, e la ferrotipia, su superficie di metallo.
Una particolare applicazione della lastra umida nacque per soddisfare l'enorme richiesta di ritratti. Brevettata nel 1854 da André Adolphe Eugène Disderi, si componeva di una fotocamera a quattro
obiettivi che impressionava una lastra con due esposizioni, per un totale di otto immagini da 10x6 cm, stampati a contatto su carta che, a causa delle piccole dimensioni, vennero chiamati carte
de visite.
In Italia i primi giornali illustrati da fotografie furono "L'illustrazione italiana" (7 novembre 1863) e "L'illustrazione universale" (3 gennaio 1864).
L'industria fotografica
La richiesta sempre pressante di materiali, strumenti e fotografie produsse un nuovo mercato di fabbriche e laboratori specializzati. La produzione di carta albuminata richiese l'impiego, nella
sola fabbrica di Dresda, di circa 60.000 uova al giorno. I laboratori fotografici divennero delle catene di montaggio dove ogni compito era demandato ad un singolo individuo. Una persona si
occupava della preparazione delle lastre, che venivano portate al fotografo per l'esposizione e in seguito assegnate ad un altro collaboratore per lo sviluppo. Infine, le lastre erano pronte per
il fissaggio conclusivo in un'altra stanza. Erano inoltre presenti delle assistenti per accogliere i clienti e indicar loro la posa più opportuna.
Il popolare formato a carte de visite fece nascere la moda dell'album fotografico, dove presero posto i ritratti di famiglia e spesso anche di famosi personaggi dell'epoca. In America si
vendettero oltre mille fotografie dell'eroe di Fort Sumter, il maggiore Robert Anderson e in Inghilterra vennero prodotte un gran numero di immagini raffiguranti i reali.
Anche la fotografia paesaggistica fornì elevate quantità di cartoline raffiguranti vedute, monumenti, quartieri o edifici storici da consegnare al turista in visita. Nel 1860 in Scozia, il
laboratorio di George Washington Wilson produsse più di tremila fotografie al giorno, utilizzando dei negativi di vetro posti a contatto su carta albuminata, trasportata su nastri all'aperto per
l'esposizione alla luce solare.
La necessità di produrre lenti e apparecchiature fotografiche vide la nascita e lo sviluppo di importanti aziende fotografiche, che grazie al loro impegno e sviluppo portarono numerose
innovazioni anche nel campo dell'ottica e della fisica. Già nella seconda metà del 1800 furono fondate aziende importanti come la Carl Zeiss, la Agfa, la Leica, la Ilford e la Kodak.